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Pirandello - Scialle nero (parte 1/5)

created Oct 21st 2020, 18:51 by DanieleRusso


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 I. Aspetta qua -, disse il Bandi al D’Andrea. - Vado a prevenirla. Se s’ostina ancora, entrerai per forza.  
Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l’uno di fronte all’altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro, l’uno non aggiustasse all’altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo Sdella cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all’altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.
Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all’Università, dove poi l’uno s’era laureato in legge, l’altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all’uscita del paese.
Si conoscevano così a fondo, che bastava un lieve cenno, uno sguardo, una parola, perché l’uno comprendesse subito il pensiero dell’altro. Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio di frasi e seguitava poi in silenzio, come se l’uno avesse dato all’altro da ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi; entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la tentazione di volgere un po’ il capo verso la ringhiera del viale per godere la vista dell’aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di piani, col mare in fondo, che s’accendeva tutto agli ultimi fuochi del tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due vi potessero passar davanti così, senza neppur voltarsi a guardare.
Giorni addietro il Bandi aveva detto al D’Andrea: Eleonora non sta bene.
Il D’Andrea aveva guardato negli occhi l’amico e compreso che il male della sorella doveva esser lieve: Vuoi che venga a visitarla?
- Dice di no.
E tutti e due, passeggiando, s’erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano tutto.
Il D’Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa d’uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch’essa a diciotto anni col fratello molto più piccolo di lei, industriandosi dapprima con minute e sagge economie su quel po’ che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando lezioni di pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche l’amico indivisibile di lui.
- In compenso però, - soleva dire ridendo ai due giovani - mi son presa tutta la carne che manca a voi due.
Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i lineamenti del volto, e l’aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si vedono nelle chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri, che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva volessero anch’essi attenuare, con un certo studio che le dava pena, l’impressione d’alterigia che quel suo corpo così grande poteva destare sulle prime; e ne sorrideva mestamente.
Sonava e cantava, forse non molto correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e cresciuta tra i pregiudizii d’una piccola città e non avesse avuto l’impedimento di quel fratellino, si sarebbe forse avventurata alla vita di teatro. Era stato quello, un tempo, il suo sogno; nient’altro che un sogno però. Aveva ormai circa quarant’anni. La considerazione, del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensava, almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d’averne invece attuato un altro, quello cioè d’avere schiuso col proprio lavoro l’avvenire a due poveri orfani, la compensava del lungo sacrifizio di se stessa.
Il dottor D’Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l’amico ritornasse a chiamarlo.
Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di mobili già consunti, d’antica foggia, respirava quasi un’aria d’altri tempi e pareva s’appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro, dell’immobile visione dalla sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di famiglia appesi alle pareti erano, dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo, c’era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d’Eleonora, che le figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco.
Spazientito, alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia, sporse il capo, udì piangere nella camera di là, attraverso l’uscio chiuso. Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a quell’uscio.
-Entra, - gli disse il Bandi, aprendo. - Non riesco a capire perché s’ostina così.
-Ma perché non ho nulla! - gridò Eleonora tra le lagrime.
Stava a sedere su un ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e pallida; ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva più che mai strano, e forse più ambiguo che strano, per un certo indurimento negli occhi, quasi di folle fissità, ch’ella voleva tuttavia dissimulare.
-Non ho nulla, v’assicuro, - ripetè più pacatamente. - Per carità, lasciatemi in pace: non vi date pensiero di me.
-Va bene! - concluse il fratello, duro e cocciuto. - Intanto, qua c’è Carlo. Lo dirà lui quello che hai. - E uscì dalla camera, richiudendo con furia l’uscio dietro di sé.
Eleonora si recò le mani al volto e scoppiò in violenti singhiozzi. Il D’Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra seccato e imbarazzato; poi domandò:
- Perché? Che cos’ha? Non può dirlo neanche a me?
E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s’appressò, provò a scostarle con fredda delicatezza una mano dal volto:
- Si calmi, via; lo dica a me; ci son qua io.
Eleonora scosse il capo; poi, d’un tratto, afferrò con tutt’e due le mani la mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette: - Carlo! Carlo! Il D’Andrea si chinò su lei, un po’ impacciato nel suo rigido contegno.
- Mi dica…
Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente, a bassa voce:
-Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo il modo; mi manca il coraggio, la forza.
-Morire? - domandò il giovane, sorridendo. - Che dice? Perché?
-Morire, sì! - riprese lei, soffocata dai singhiozzi. - Insegnami tu il modo. Tu sei medico. Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo morire. Non c’è altro rimedio per me. La morte sola.
Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi in sé, quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo.
-Sì, sì, - disse poi, risolutamente. - Io, sì, Carlo: perduta! perduta! Istintivamente il D’Andrea ritrasse la mano, ch’ella teneva ancora tra le sue.
-Come! Che dice? - balbettò.
Senza guardarlo, ella si pose un dito su la bocca, poi indicò la porta:
- Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi prima morire; dammi, dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò che sia una me dicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio, non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest’agonia, senza trovar la forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici?
- Che ajuto? - ripetè il D’Andrea, ancora smarrito nello stupore. Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con occhi supplichevoli, soggiunse:
- Se non vuoi farmi morire, non potresti… in qualche altro modo… salvarmi? Il D’Andrea, a questa proposta, s’irrigidì più che mai, aggrottando severa mente le ciglia.
- Te ne scongiuro, Carlo! - insistette lei. - Non per me, non per me, ma per ché Giorgio non sappia. Se tu credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami ora, salvami! Debbo finir così, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto sofferto? così, in questa ignominia, all’età mia? Ah, che miseria! che orrore!
- Ma come, Eleonora? Lei! Com’è stato? Chi è stato? - fece il D’Andrea, non trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la sua curiosità sbigottita.
Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprì il volto con le mani:
-Non mi ci far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa vergogna?
- E come? - domandò il D’Andrea. - Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi dica: non si potrebbe in qualche altro modo… rimediare?
- No! - rispose lei, recisamente, infoscandosi. - Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne posso più…
Abbandonò il capo su la spalliera del seggiolone, rilassò le membra: sfinita.
Carlo D’Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio di virtù, d’abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa. Possibile? Eleonora Bandi? Ma se aveva in gioventù, per amore del fratello, rifiutato tanti partiti, uno più vantaggioso dell’altro! Come mai ora, ora che la gioventù era tramontata… - Eh! ma forse per questo…
La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo così voluminoso, assunse all’improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto orribilmente sconcio e osceno.
- Va’, dunque, - gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza guardarlo, in quel silenzio, si sentiva addosso l’inerte orrore di quel sospetto negli occhi di lui. - Va’, va’ a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di me quello che vuole. Va’.
Il D’Andrea uscì, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per vederlo uscire; poi, appena richiuso l’uscio, ricadde nella positura di prima.

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